Ventuno giorni di India

Fredda mattina romana, mi trovo a rimettere insieme i frammenti di queste tre settimane di India.

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La prima tappa, Mumbai o Bombay, ci accoglie tra i suoi milioni di clacson, lo smog infernale e un’umidità che ci lascia senza fiato, come se non bastasse già tutto il resto a toglierci il respiro. Ogni angolo di strada ha la sua piccola meraviglia nascosta: un sapore sconosciuto, un sorriso irresistibile, un piccolo altare ornato di fiori, un nome magico.

 

img_6614 Visitiamo lo slum di Dharavi, in cui vivono oltre 600.000 anime quasi tutte parecchio sorridenti. Se la necessità aguzza l’ingegno, Dharavi è un pozzo di scienza: nello slum si ricicla la plastica, si conciano le pelli, si fondono le lattine in lingotti di alluminio, il tutto tra vicoletti bui e non più larghi di un metro. Hindu, Musulmani, Jainisti e Cristiani convivono nel dedalo, i loro bambini corrono a piedi scalzi trai i rottami, felici, mentre i più grandi giocano con gli aquiloni.

C’è acqua quattro ore al giorno, mentre la corrente non manca quasi mai. C’è anche la banca e tutto il resto, non manca davvero nulla: “we have each and every facilty, everything is there” dice la nostra guida.

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Dopo due giorni di Mumbai, con i polmoni intasati di PM10, si decide di proseguire per Goa assieme a Stefan, austriaco conosciuto nel pessimo ostello dove siamo ospiti. Un autobus sgangherato e pieno di scarafaggi ci porta a Mapusa 14 ore dopo, da lì proseguiamo in rickshaw.

Il nord di Goa è come me l’aspettavo, come tutti i luoghi remoti colonizzati dall’uomo bianco di poca cultura: bar con musica pessima e cibo scadente, il tutto a prezzi elevati. Affittiamo uno scooter e ci perdiamo tra le vie di Panaji, visitiamo il mercato e un festival di musica e danza, respiriamo l’aria intrisa di umido e pesce. L’India è seducente, e a questa regola non ci sono eccezioni.

Il Sud di Goa si rivela ben più interessante: rimaniamo quattro giorni a Patnem, ospiti dell’unico indiano del villaggio ad avere avuto la brillante idea di accettare pagamenti elettronici: poche settimane prima di Natale, il governo ha messo al bando le banconote da 500 e 1000 rupie, come misura per stroncare la corruzione e l’evasione fiscale (i due sport nazionali, oltre al cricket), ma l’operazione ha avito come effetto collaterale la mancanza di contante in circolazione, i bancomat sono presi d’assalto e spesso le banconote sono esaurite.

img_6812Ci rilassiamo sulla palafitta che dà sul mare Arabico, facciamo Yoga la mattina o al tramonto, ci dedichiamo al silenzio e alla lettura: Hesse, Pasolini, Erri de Luca, e quando ci sentiamo cotti a puntino dal sole è già ora di ripartire, la strada chiama e non si può non ascoltare.

Arrivati all’aeroporto di Goa scopriamo che un aereo è uscito dalla pista, è tutto bloccato, 13 ore di ritardo. Nell’attesa esploriamo i dintorni, camminiamo sulla ferrovia come Kerouac  e ci facciamo inseguire da un toro mansueto. Andiamo al porto: qui i pescherecci si costruiscono ancora a mano, con il legno. Finalmente un aereo ci catapulta mille chilometri più a sud, a Cochin, finalmente in Kerala.

img_6964È notte ma si capisce subito che questo stato è molto più avanzato di tutti quelli che ho visitato fin’ora in India. Le immagini del Che e di Fidel decorano i rickshaw e le fermate dell’autobus. Sono comunisti qui. Facciamo appena in tempo a dormire qualche ora e a mangiare una colazione piccante prima di rimetterci su un treno che ci porta a Kalamkulam: siamo diretti ad Amritapuri, un ashram dalle dimensioni di una città, costruito intontorno alla casa di Amma, uno dei pochi guru donna dell’India.

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Bastano pochi minuti per capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente insolito, assolutamente contraddittorio e affascinante. Niente a che fare con altri ashram incontrati in precedenza: qui ci sono edifici di 15 piani, con migliaia di posti letto (calcoliamo che siano almeno 18.000!), si vendono Pepsi e souvenir e c’è un elefante incatenato a un albero. Dove siamo finiti?

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Un signora italiana che vive da “parecchi anni” nell’ashram ci conduce in un tour guidato: ha molti tic e un atteggiamento elusivo di fronte alle nostre domande. Si direbbe che non ha tutte le rotelle a posto, come molti altri residenti che incontriamo, ma ci sforziamo per mantenere un’attitudine aperta e non giudicante (con scarsi risultati). Amma sta tutto il giorno sul palco e abbraccia i fedeli giunti da tutto il mondo, un mega-schermo spara la sua immagine nell’immensa hall del darshan, la benedizione, mentre si cantano mantra Hindu e si vendono patatine fritte. Almeno l’alcool è vietato.

La sera mangiamo (gratis) insieme a mille indiani, usiamo solo le mani: il cibo è buono ed è bello essere lì con tutte queste persone, ognuna in cerca della propria strada. Ci sono moltissimi turisti, e faccio fatica a non pensare quanto siano fuori luogo le ragazze truccate e il chiasso incredibile che impedisce qualunque forma di raccoglimento e meditazione. Del resto l’India non sarebbe l’India senza tutte le sue contraddizioni…

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Esploriamo le backwaters, i canali che separano la penisola su cui è costruito Amritapuri dal continente, vediamo meduse giganti e case di villeggiatura, pescatori e gondolieri. Quello che potevamo prendere da questo luogo l’abbiamo preso e lo porteremo con noi: è ora di ripartire.

A Cochin troviamo Valentina che ci ha raggiunto da Delhi, a ospitarci John e Mary, indiani che hanno aperto la loro casa a Airbnb. Parlare con John è un piacere: lo bombardo di domande sui temi più disparati. È una persona molto informata, legge e ha passato una vita a lavorare negli uffici della dogana. Anche lui mi fa molte domande sull’Italia, sulla situazione economica e sulla religione. Le sue due figlie hanno frequentato una delle università fondate da Amma, la guru di Amritapuri. Mi racconta che si tratta di college di alta qualità, estremamente costosi (per iscriversi bisogna prima fare una donazione di almeno 60.000 dollari e poi pagare la retta!), ma che intorno alla figura di Amma e alla sua fondazione Amritapuri ci sono parecchie zone grige: sono noti i legami stretti con il partito Hindu di estrema destra BJP. Non solo: alcuni residenti dell’Ashram sono stati coinvolti in scandali riguardanti traffici di organi nell’ospedale dell’ashram, e una scrittrice australiana, Gail Tredwell,  nel libro Holy Hell, ha denunciato abusi sessuali all’interno di Amritapuri.

L’indomani, nella zona di Fort Cochi, dopo un breve giro turistico, troviamo un noleggio di moto con cui prendiamo accordi per il giorno successivo. La sera del 31 dicembre ci immergiamo in una folla di giovani (molti ubriachi) per vedere i miseri fuochi d’artificio nella zona delle famose reti da pesca cinesi. Poi andiamo a letto presto, esausti.

Il 2017 inizia con due moto cariche di bagagli e una meta, Munnar, sulle colline, a 160km da Cochin e 1600 metri di altitudine. Il viaggio è lungo per via del traffico. Finalmente, nel pomeriggio, arriviamo in una zona completamente ricoperta di piantagioni di té, e ci stabiliamo in una vecchia casa trasformata in guest house proprio in mezzo ad una di queste. Il posto è molto bello, fa freddo e si respira un’aria pulita e frizzante. Ci scaldiamo con il vino che ci vendono due viaggiatrici incontrate lì: in Kerala la regolamentazione sull’alcool è molto rigida, e quello è il nostro unico brindisi di buon anno.

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Per due giorni esploriamo con le moto i dintorni di Munnar, percorrendo le strade dissestate ed evitando diverse collisioni con gli autobus che viaggiano a tutta birra senza risparmiare sul clacson… Visitiamo una diga, e ci innamoriamo delle nostre moto che ci permettono di esplorare capillarmente ogni angolo, seguendo il nostro istinto e non il percorso stabilito dalla massa di turisti perlopiù indiani che affollano questa zona. Intorno a noi migliaia di ettari di coltivazioni di tè, quasi tutti di proprietà del gigante indiano Tata.

Terzo giorno: è mattina presto e fa freddo, ma non c’è nessuno per strada. Saliamo in sella e, forse poco prudentemente, ci precipitiamo giù per le colline per tornare verso la costa: abbiamo 200 km da fare, e in India ci può volere una giornata, meglio darsi una mossa.

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Alle tre di pomeriggio siamo vicino ad Aleppey: sarà la nostra ultima tappa per questo viaggio. All’arrivo sono ricoperto dalla polvere e dalla sporcizia della strada, cotto dal sole e con le articolazioni allentate dalle vibrazioni della mia Bullet 500 monocilindrica.

È alta stagione e non è facile trovare un alloggio per la notte, percorriamo la strada costiera avanti e indietro alla ricerca di una soluzione non troppo cara. Alla fine troviamo una stanza in un homestay, una casa con stanze in affitto.

Dapprima, i due padroni di casa, Grita e Jimmy, sembrano diffidenti, ma di lì a poco abbiamo già legato e ci sentiamo a casa. Non sappiamo che tra poche ore mangeremo la più squisita cena del viaggio, sapientemente cucinata da Grita, a base di pesce, latte di cocco, riso e zenzero. Una vera delizia, così come deliziose saranno le successive colazioni e la cena del giorno seguente.

Nei due giorni successivi non vado al mare, ma mi dedico all’esplorazione di Aleppey, faccio un po’ di acquisti e salgo sul faro, dove la vista sul mare Arabico mi commuove: il viaggio sta per finire e sento il bisogno di rimettere insieme le idee.

img_7192Mi fermo oltre un’ora sulla terrazza osservando il panorama: tutto intorno milioni di palme e gli immancabili clacson delle auto. In un piazzale polveroso dei giovani stanno facendo un esame di guida, più in là un treno viaggia lentamente, nessuno ha davvero fretta qui. C’è un piacevole venticello e mi fermo a scrivere sul mio quaderno. La lentezza Indiana mi contagia.

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Il giorno della partenza salutiamo Grita e le sue leccornie, la nostra casa costruita sulla sabbia e il canto bizzarro di mille uccelli tropicali. Si torna a Cochin, ancora una volta ospiti da John. Il viaggio è l’occasione per salutare il paesaggio pieno di palme e canali, ce lo godiamo guidando piano con le moto che scoppiettano come piccoli trattori.

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La mattina seguente, molto presto, Giuliano e Valentina partono per Mumbai in aereo, io li seguo a distanza di ore, ore che impiego a imballare il ricco bottino accumulato in viaggio.

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Ci separano molte ore da Roma, di cui dieci nell’orrendo aeroporto di Jeddah, dove per caso incontriamo dei ragazzi spagnoli conosciuti a casa di Grita, e conosciamo Vittoria, Federica e Jacopo, che tornano da un viaggio in Thailandia. Le lunghe ore buttati a terra in aeroporto passano lente tra racconti di viaggio e voglia di casa…

Dopo molte ore arriviamo finalmente a Roma, all’aeroporto ci aspetta Federica. Festeggiamo la fine del viaggio con un pranzetto da Necci: amatriciana e barbera d’Alba. Nessuno sente la mancanza del coriandolo o del cardamomo…

Mentre andiamo verso la stazione in macchina, ogni tanto mi giro a guardare le facce di Valentina e Giuliano. Siamo stanchi, puzzolenti e molto soddisfatti. Ora si tratta di fare tesoro di tutto quello che abbiamo visto e sentito, inizia un altro viaggio.

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Attraversare l’Atlantico in barca a vela?

Diversi anni fa, una domenica come tante, mi trovavo al Lago di Martignano, poco a Nord di Roma. Era una giornata estiva, calda. Ero lì con degli amici, essendo quella una località abbastanza nota per chi, volendo rinfrescarsi un poco, non vuole affogare nel traffico che sempre si trova d’estate in prossimità della costa.

Circa due anni prima, una coppia di amici del liceo, erano partiti per un lungo viaggio intorno al Mondo. Quel giorno li incontrai a Martignano. Erano tornati da poche settimane.

Incuriosito dalle storie che sicuramente avevano da raccontare, mi imbarcai con loro su un pedalò, e dalla riva salpammo per conquistare il centro del lago.

Tempestai i due di domande, e da loro ebbi tante e tali risposte che, a distanza di molti anni, ancora ricordo alcune parole ed espressioni che usarono. La parte che più mi aveva colpito del loro viaggio era in effetti proprio l’inizio, e cioè la loro partenza (se non sbaglio da Nettuno) su di una piccola barca a vela con la quale avevano attraversato l’Oceano Atlantico.

Quello che forse mi aveva colpito di più era stato lo slancio di fantasia necessario anche solo per immaginare che una cosa del genere fosse possibile! E così, a bordo di un pedalò, a pochi chilometri da casa, venni a sapere che attraversare l’Oceano Atlantico su una barca a vela è qualcosa di non solo fattibile, ma anche relativamente economico, e per cui (se si è parte di un’equipaggio con un capitano esperto) non serve un’esperienza di navigazione.

In seguito a quella conversazione cercai molte informazioni a questo proposito. A chi fosse affascinato dall’idea consiglio di leggere questo libro.

C’è anche un video interessante in cui mi sono imbattuto stasera e che mi ha fatto venire voglia di scrivere questo post (e di attraversare l’Oceano):

Sabina mon amour

Ho dedicato il weekend appena passato all’esplorazione di un pezzetto di Sabina.

Sono partito Sabato mattina di buon’ora con l’idea di arrivare a Pontesfondato, una frazione di Passo Corese, nel pomeriggio. Ho deciso di non usare il navigatore né le mappe del cellulare, così ho fotocopiato un pezzo della mappa della provincia di Roma che ho comprato per queste occasioni, e sono partito con una bussola incollata sul manubrio (la stessa bussola che mi ha accompagnato a Londra l’anno scorso).

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Abbiamo dimenticato come si viaggia con le mappe. Sono sempre stato un discreto navigatore e le mappe mi sono sempre piaciute molto, ma si fa presto a dimenticare alcune regole di base:

  • la mappa non è il territorio;
  • dare sempre ascolto alla gente del posto;
  • osservare la regola qui sopra cum grano salis;
  • meglio fermarsi 5 minuti in più a un bivio che sbagliare strada (la più importante di tutte).

Ed è così che , non avendo osservato nessuna di queste quattro regole, dagli iniziali 62Km che avevo programmato, mi sono ritrovato a farne quasi 100, di cui gli ultimi cinque su uno sterrato per cui la mia bici (e le mie gambe stanche) non erano preparate. In ogni caso ho percorso i suddetti 100km in meno del previsto, arrivando a destinazione entro le 16.

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Sono stato ospitato da Silvia, una ragazza di Couch Surfing che studia a Roma ma ha deciso di vivere in una casa piuttosto sperduta nella campagna.

L’indomani mattina sono ripartito alle 8 per andare a incontrare Donna Marzia alla stazione di Poggio Mirteto scalo. Da lì ci siamo diretti insieme verso Roccantica, dove c’è una falesia attrezzata per l’arrampicata e dove avevamo appuntamento con il resto della combriccola per una giornata di scalate e roccia.

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L’ascesa a Roccantica, ancorché breve in termini di chilometri, è stata molto dura: la salita non molla mai, e ci sono pendenze che ti costringono ad alzarti sui pedali e concentrarti. A tratti ho dovuto spingere la bici sugli ultimi pezzi sterrati del sentiero di avvicinamento.

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Dopo aver scalato (con scarsi risultati dovuti alla stanchezza dei due giorni di bici), verso sera abbiamo ci siamo rimessi in bici per tornare a prendere il treno a Poggio Mirteto. Il sole e le nuvole hanno illuminato la valle con una luce che lasciava a bocca aperta:

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Cicloturismo e arrampicata: il weekend perfetto?

Si è appena concluso un fantastico weekend di cicloturismo e arrampicata iniziato ieri mattina con un treno fino a Narni.

Scesi alla stazione abbiamo inforcato i cavalli metallici per dirigerci verso Ferentillo. La strada della Valnerina, con le sue fabbirche abbandonate, ci ha condotto attraverso le montagne.

Poco dopo Terni è iniziato un leggero falsopiano in salita, dopo poco ha fatto la sua apparizione attraverso la nebbia la Cascata delle Marmore.

Giunti a destinazione ci siamo riposati un po’ alla Mola del Sacramento per poi fare un salto al settore Balcone e arrampicare un po’, non dopo aver fatto un salto al Neraboulder.

Stamattina ci siamo invece dedicati al settore Le Mummie e abbiamo scalato un po’ su qualche quinto grado. Soddisfazioni e qualche volo non sono mancati, anche grazie alla ottima compagnia di Marzia, Edà, Manuel, Reza, Marilena e Laura.

La pioggia ci ha poi costretto a ritirare, ma dopo un paio di birrette il cielo si è aperto: siamo tornati in bici a Terni nell’aria fresca dell’autunno, con un bellissimo tramonto e una rinnovata voglia di stare in sella, di esplorare, di sentire il vento e la pioggia sulla pelle.

L’emozione di essere di nuovo in sella, di viaggiare con la bici carica di bagagli, di pedalare per andare da qualche parte e non solo per “allenarsi”, di essere autonomi, di essere pronti all’imprevisto, di essere aperti all’inaspettato che solo un viaggio in bici ti può dare mi hanno aperto il cuore, mi hanno fatto venire voglia di progettare la prossima avventura (e di comprarmi un’altra bici).

Gianni Son

Quello che vedete nella foto è Gianni Son, è coreano e ha 28 anni. Circa un mese fa ho ospitato lui e il suo enorme zaino sul divano di casa mia, dopo che mi aveva contattato tramite Couchsurfing (se non sai cos’è è ora che lo scopri).

Sono su CS da molto e anni e ho ospitato decine di persone. Molte erano persone normali, a volte banali, tipo quelli che viaggiano in europa con i treni e ti dicono (di volta in volta in una lingua diversa): “Siamo in giro da una settimana, abbiamo fatto Parigi, Amsterdam e Berlino. Tra una settimana torniamo a casa e vogliamo fare ancora Roma, Bologna e Padova“. Per “fatto” intendono che sono state tra le 24 e lo 48 ore nella città in questione: possono postare il loro selfie davanti al Louvre e via, alla volta di Berlino per un altro selfie sotto gli archi della Brandeburger Tor!

Fortunatamente però ho avuto la fortuna di ospitare dei personaggi davvero singolari, veri avventurieri dell’epoca digitale, guerrieri della globalizzazione. Tra questi non potrei non citare Gianni Son.

Un soggetto particolare

Partito circa 18 mesi prima dalla Korea del Sus, e dopo aver viaggiato sui 5 continenti, è approdato alla fermata Villini delle Ferrovie Laziali-Giardinetti dove l’ho incontrato per la prima volta. Era tutto sudato e sorrideva.

Arrivato a casa, dopo essersi ricomposto e dopo aver dato fondo alle mie riserve di frutta, mi ha raccontato della sua missione: viaggiare in giro per il mondo e incontrare tutti i business man coreani stabilitisi nei paesi che attraversava per intervistarli. Una missione quantomai singolare e, credetemi, non facile.

Gianni viaggia con un discreta dotazione tecnologica che comprende, tra gli altri dispositivi, un laptop su cui digita senza interruzione e spesso senza nemmeno guardare lo schermo: sta scrivendo un lungo diario della sua esperienza, un giorno vuole diventare anche lui un business man (in Korea, nel campo della logistica).

 

Infinitely Polar Bear (Teneramente folle)

Nel tardo pomeriggio di un sabato di Luglio, mentre orde di teenager e altri autoctoni abbronzatissimi si mescolavano ai numerosi turisti per le vie del centro, a caccia di shopping tra i saldi estivi, mi sono infilato nella sala semivuota del cinema Nuovo Olimpia, il mio preferito, per vedere un film che mi ha emozionato al punto che ho deciso di scriverne qui.

Si tratta della storia di una famiglia di Boston alle prese con il disturbo bipolare del padre. Tutto inizia quando Cameron viene ricoverato a seguito di un episodio particolarmente acuto della malattia. Dalla meravigliosa casa in campagna in cui vive la famiglia, per ragioni economiche, la madre Maggie, rimasta di fatto solo ad accudire le due figlie, decide di trasferirsi in città (Boston).

Dopo la dimissione dall’ospedale è il momento per Cameron di riconquistare la fiducia delle tre, soprattutto dopo che Maggie, per via della condizione di semi-povertà in cui si trovano, decide di tornare a New York per finire gli studi di economia.

Inizia così una rocambolesca convivenza del padre e delle due figlie in cui si confondono i ruoli di ci accudisce e di chi è accudito, si riflette sul tema dell’età, della creatività e della fantasia: Cameron, alla sua inadeguatezza come figura paterna, affianca un’infinita capacità di stupire ed entusiasmare le bambine cucinando, cucendo loro vestiti e stimolando in mille modi la loro creatività.

Due cose del film mi hanno fatto riflettere sopra le altre: per prima la capacità che hanno gli anglofoni di riferirsi alle proprie emozioni con grande precisione (ho visto il film in lingua originale), aiutati anche dal vocabolario molto più vasto e “tecnico” rispetto a noi latini (il discorso è lungo, in inglese le parole usate per dare un nome ai propri stati d’animo sono molte di più delle nostre, e soprattutto di uso molto più comune), e per seconda la riflessione/provocazione sottintesa dal film che si interroga su quale debba effettivamente essere il ruolo dei genitori: figure ispiratrici (pronte anche a mostrare la propria unicità e vulnerabilità) piuttosto che guide infallibili (incapaci però di stimolare). Cameron, infatti, nella sua follia, costringe le bambine ad essere responsabili per se stesse, a fa da sè, senza mai essere assente. Nonostante loro si vergognino di lui davanti ai propri amici, nonostante le oggettive ed enormi difficoltà, questa unicità si rivela una ricchezza e una risorsa per la loro famiglia.

Finalmente si fa sul serio

Circa dieci anni fa aprii il mio primo blog, era ancora l’epoca di Blogspot, non mi era chiaro cosa fosse un blog e Facebook era soltanto uno dei tanti siti che si usavano (mi ricordo quando la sorella della mia ragazza mi spiegò cosa era Facebook!) Nessuno aveva uno smartphone e per fare le foto servivano ancora le macchine fotografiche (ancorché digitali). Avevo un blog ma non sapevo esattamente cosa scriverci.

Qualche anno dopo, per la precisione il 10 Agosto del 2010 aprii il mio secondo blog con questo post inaugurale: stavo per partire per una lunga avventura attorno al mondo e pensai che era il caso di documentare il mio viaggio, se non altro per me stesso (scoprii poi che il blog aveva un certo seguito di affezionati lettori).

E veniamo dunque a noi: ieri sera, dopo un paio di birre, mi sono deciso finalmente a registrare il mio dominio personale una volta per tutte. Tante volte mi ero soffermato a chiedermi quale sarebbe stato il nome del mio sito personale, che è come dare un nome a se stessi, trovando le soluzioni più fantasiose ma mai soddisfacenti. Finché ieri ho capito: Pandacurioso era perfetto. Panda perché è il mio nome di battaglia, e curioso perché sotto l’egida della mia curiosità avrei potuto scrivere di qualsiasi argomento, che è quello che mi accingo a fare su questo blog.

Così l’ho fatto, ho registrato il dominio, ho installato WordPress (con cui di recente mi sono trovato a lavorare, sta nascendo un grande amore tra noi), e mi sono trovato a maledire la tecnologia fino alle tre di notte per modificare il foglio di stile CSS

E adesso eccoci qua ad inaugurare questo nuovo capitolo, per lasciare una traccia di ciò che è, cercando di fregare il tempo, e riuscendoci anche un po’. Buona lettura.

Alla volta di Pescara

Se vuoi fare qualcosa di divertente puoi andare a Pescara l’8 Marzo e correre la Alleycat di Seahub. Ma se vuoi fare una cosa ancora più divertente ci puoi andare in bici.

Per la prima volta mi avventuro in un coast to coast tutto made in Italy (anche la bici)  con un Appennino di mezzo: da Roma a Pescara con altri 3 scalmanati.

I recenti collaudi della Hobo le impongono di rimanere ancora un po’ in officina, e poi domani mi sa che si corre. Ho scelto di andare con la bici da corsa. Ho colto quindi l’occasione per sperimentare la mia nuova modalità di carico in stile Hypercycling con tutti i pacchi montati con riguardo all’aerodinamica e al peso.

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Prima tappa Avezzano, domani, poi Avezzano – Pescara che si preannuncia divertente.

Hasta la vista.

Ciò che conta è la bicicletta.

 

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Quando ho scritto il mio ultimo post, lo scorso Agosto, stavo per partire per l’India. Stavo per ri-partire, dopo due anni di quiete Italiana, mi affacciavo di nuovo sul mondo, il mio terreno di gioco preferito.

 

 

 

mappettaNon ho scritto nulla su quel viaggio, solo alcuni appunti che ho tenuto per me, e non è questa la finalità di questo post. Quello che mi ha lasciato l’India è un appetito che dopo soli 5 mesi dal mio ritorno mi sta riportando sulla strada . Turchia sta volta. In bici finalmente.

 

 

IMG_0469Si è deciso dunque di fare rotta su Istanbul. Itinerario: Roma – Brindisi (treno), Patrasso (traghetto), e poi in bici Atene, Tessalonica, Alessandropoli, Istanbul. Il team è composto da me e Donna Marzia, coinquilina e compagna di avventure cicloattivistiche, il mezzo: due Cinelli Hobo identiche comprate per l’impresa.

Il viaggio inizia nel momento in cui decidi di partire. quindi diciamo che sono in viaggio da un paio di settimane. Bollettino di viaggio:

Km percorsi: zero. Km all’arrivo: tutti. Stato del mezzo: La bici va una bomba con la dotazione di serie, ho regolato il manubrio sul massimo dell’altezza e ho messo la sella brooks che sto iniziando a “scalfire”. I portapacchi originali sono stati rimossi e ho messo il mio fedele Tubus Cargo al posteriore. Insieme alle borsette sul telaio e all’Ortlieb anteriore mi sembra una capacità di carico anche eccessiva.. Poi ho montato un secondo manubrio che regge borsa anteriore e tenda. Questo per risparmiare spazio sul manubrio “principale”, su cui invece ho montato una leva ausiliaria per il freno anteriore. Presto aggiungerò computerino-contakm, specchietto e campanello.

Sto studiando bene l’equipaggiamento. Per ora mi sto concentrando su un sistema che mi dia un po’ di autonomia per le luci e il telefono (che voglio usare come navigatore, macchina fotografica, computer e telefono). Al momento credo che porterò una batteria 12V Li-Ion da 10Ah che avevo da un’altro progetto. Teoricamente dovrebbe essere in grado di ricaricare un iPhone oltre 20 volte prima di scaricarsi. Vedremo, siamo in fase di test.

Nota: appena finiscono le piogge frequenti montare Marathon Racer 666×30 e verificare benefici/svantaggi (al momento le “gomme” di serie sembranio essere scorrevoli nonostante la larghezza di 40mm).