Pandamericana in not dead!!!

Bentornati a Pandamericana, un viaggio Permacatarico attraverso il continente dove tutti parlano latino.
Sono passati decine di giorni e migliaia di kilometri dall’ultima puntata, a Lima. Come potete immaginare sono successe un’infinità di cose, ma cercherò si fare un concentrato e estrapoalare l’olio essenziale delle vicessitudini avvicendatesi.
Lasciata lima, il 7 gennaio, un nuovissimo ed efficentissimo aereo della Lan, compagnia cilena, mi ha portato per la seconda volta a Buenos Aires, dove mi attendeva una nuova permavventura in Gaia. Raggiuntomi Hugo, di ritorno dalla Spagna, ci siamo catapultati nel corso di disegno in permacultura (PDC), dove, durante 13 giorni di intense lezioni (8 ore al giorno!) abbiamo appreso i fondamenti di questa arte-scienza-filosofia che è la permacultura. In Gaia abbiamo conosciuto Edoardo, un ferrarese che stava lì da quasi tre mesi come volontario. Abbiamo conosciuto anche Paula (di Buenos Aires) e Fernanda (di Brasilia). Con i suddetti, più Lucia, vecchia conoscenza del primo corso, ci siamo avventurati, poco dopo la fine del PDC, verso nord, verso l’Uruguay, il paese del mate e della vita rilassata sulle sponde dell’Atlantico.
Raggiungere l’Uruguay comporta passare per il delta del Tigre, una serie infinita di isolette verdeggianti e con una roboante biodiversità, sia in termini prettamente floro-faunistici, sia in termini umani. Questo paradiso naturale è infatti popolato da orde di vacanzieri armati di borse frigo e quintali di carne atti all’implementazione di pantagruelici asados (ovvero grigliate), consuamti tra una gita in motoscafo e una doccia di repellente per zanzare.
Dopo questa amena parentesi, lasciamo finalmente l’Argentina, e a bordo di un catamarano con aria condizionata stile cella frigo ci dirigiamo verso Carmelo, da cui si entra in Uruguay, dove un pullman con aria condizionata stile cella feezer ci aspetta per portarci a Montevideo. Non me ne volgiano gli Uruguayani, questa città non merita di ulteriori dettagli.
Ripartiamo dunque per raggiungere la famosa regione di Rocha, con le sue spiagge di sabbia bianca e i i tipici “ranchos”, ex casette di pescatori convertite in lussuose case di vacanza. La fama è effettivamente ben riposta: si tratta di una regione meravigliosa, i ranchos sono effettivamente molto pittoreschi, e i due giorni che passiamo in campeggio sono all’insegna del relax e della birra Patricia, il cui nome diventa il mantra ufficiale del gruppo. Lasciato il campeggio proseguiamo a nord, e ci fermiamo a Valizas, dove tutto è ancora più bello, più rilassante e più caro. Fernada ci ha già lasciato, diretta a Cuba via Buenos Aires, mentre io, Hugo, Lucia, Paula ed Edoardo iniziamo la ricerca di un riparo per la notte.
Un signore ci affitta per 400 pesos uruguayios una specie di deposito senza acqua nè luce, senza letti nè cucina, ma con una vista mozzafiato. Il grande portello in lamiera dà su una laguna salmastra a cui fanno da sfondo dune di sabbia a perdita d’occhio. Fantastico. Purtoppo è una accomodiation un po’ troppo spartana per Paula ed Edoardo che optano per un camping “normale”. Deve essere a questo punto che qualcosa si rompe nell’armonia del gruppo, e i due campeggiatori iniziano ad isolarsi.
Al giorno tre decidiamo di visitare Cabo Polonio, un paesino isolato che una volta era popolato da pescatori e foche, e ora è popolato da ricconi, hippies e foche. Per risparimiare, io, Hugo e Lucia decidiamo di andare in autostop. In realtà andremo a piedi, perchè nessuno si fermerà per darci un passaggio, mentre gli altri due companeros optano per l’autobus. La sera torniamo tutti insieme a piedi, attraversando in silenzio le dune di sabbia, guadando un fiume e approfittando dell’occasione per riflettere, ognuno nel suo micromondo, stimolati dalla vista sublime e dalla brezza serala che accarezza la pelle nuda e salata. Passiamo un altro giorno nel piccolo hangar, un giorno strano, un giorno di pioggia e di frattura. Si avvicina il momento dei saluti. Paula è già andata via, e all’indomani Lucia e Edoardo inizieranno il ritorno verso Buenos Aires.
Conclusa l’esperienza Uruguaya, io e Hugo, di nuovo soli, raggiungiamo Chuy, città di confine con il Brasile. In pratica è una semlice strada a dividere i due stati. Entriamo in Brasile senza neanche saperlo, e dimenticadoci il timbro di uscita della frontiera Uruguaya…
In una giornata piovosa, un altro autobus, costosissimo, ci lascia a Porto Alegre, dove, per la prima notte, alloggiamo in un ostello pieno di gente ubriaca. Una cena frugale con avocados e crackers e poi finalmente a dormire.
L’indomani raggiungiamo il Casarinho, una comunità urbana dove vive Fernanda, un’amica dell’altra Fernanda (quella di Brasilia), dove rimaniamo due giorni. E’ un momento difficile del viaggio. Sia io che Hugo non abbiamo l’ombra di un piano, e il ventaglio di possibilità tocca, tra le altre, le sueguenti destinazioni possibili: Lima, Panama City, Sydney, Sydney in barca a vela via Panama City, Bogotà, Lima in barca attraverso l’Amazzonia, Lima in autostop lungo la trans-oceanica, Rio de Janeiro.
Quando siamo sul punto di comprare un bilgietto per Christcurch, Nuova Zelanda, via Toronto, Canada, ci rendiamo conto che non abbiamo il visto, e saggiamente optiamo per venire qui, dove mi trovo ora, ad Arca Verde, una ecovilla a 40km da Porto Alegre. Il piano è schiarirsi un po’ le idee immersi nella natura, lontani dalla Matrix.
Il piano fino ad ora si rivela vincente. Arrivati a  Sao Francisco do Paula ci riceve James, con una maggiolino tutto scassato. La ecovilla è una proprietà di 25 ettari nel Rio Grande do Sul, lo stato più meridionale del Brasile. Si tratta di una zona subtropicale, a circa 900 m.s.l.m., bosco nativo di araucaria (una conifera già presente al tempo dei dinosauri) e molte altre specie vegetali. Gli alberi sono integralmente ricoperti di licheni, muschi e bromeliacee, piante che crescono in maniera simile alle orchidee sul tronco di altre piante, grazie all’umidità dell’aria.
Ci sono anche diversi laghetti, circa due ettari di acqua in totale, dove ci si può fare il bagno e si può pescare. Qui vivono due famiglie stabilmente, di cui una con un filgio di poco meno di due anni. Insieme a me e Hugo ci sono altri due volontari (Taliata,  brasiliana e Francesco, ecuadoregno poliglotta). La vita e molto rilassata e stimolante. Ci si sveglia alle 8, si fa colazione tutti insieme dopo un canto di ringraziamento all’universo, e alle nove si comincia a lavorare. Si lavora nell’orto (patate, mais, topinambur, pomodori, varie erbe aromatiche, zucche, fagioli e altro), si taglia la legna con l’ascia, si scavano canali di drenaggio per i vari sentierini, si piantano alberi da frutta, si cucina. Poi si pranza (sempre tutti insieme, e con ulteriori canti). La cucina e vegetariana, e molto buona, si mangiano patate (biologiche prodotte qui), riso, pane fatto in casa, e diverse salsette top a base di basilico, sesamo e altri alimenti strani come amaranto, quinoa e sementi varie. Il pomeriggio è dedicato allo studio e al riposo, personalmete mi dedico alla lettura dei libri di agricoltura ed ecologiache trovo qui.
Poi si cena e si chiacchera, si sogna, si sta insieme, si raccontano storie. Si va a dormire presto con abbondanti coperte per proteggersi dal freddo e dalle zanzare (e dai mille altri tipi di insetti, aracnidi, nematopodi, crostacei, cetacei, protozoi, anfibi, rettili, gnomi e anellidi).
Il sabato è dedicato al lavoro comunitario, ovvero si lavora tutti insieme ad uno dei vari progetti che sono in atto qui. Ieri per esempio siamo andati avanti con la costruzione in fango del bagno secco. La domenica e il lunedì sono giorni di riposo, dedicati alla lettura, ai bagni nel lago (quando non piove, cioè mai) e al cazzeggio.
Internet è piuttosto precario, appena  sufficiente per scrivere queste righe. Quando avrò una connessione migliore aggiungerò alcune delle foto che ho scattato in Uruguay e nei canyon qui vicino…