Oggi sono andato a vedere un cartone animato al Cinema dei Piccoli, si chiama “Quando c’era Marnie”.
Non è un cartone per bambini, anche se ce n’erano molti nel cinema. Non ho molto da dire se non una cosa: il doppiaggio era penoso.
Oggi sono andato a vedere un cartone animato al Cinema dei Piccoli, si chiama “Quando c’era Marnie”.
Non è un cartone per bambini, anche se ce n’erano molti nel cinema. Non ho molto da dire se non una cosa: il doppiaggio era penoso.
Nel tardo pomeriggio di un sabato di Luglio, mentre orde di teenager e altri autoctoni abbronzatissimi si mescolavano ai numerosi turisti per le vie del centro, a caccia di shopping tra i saldi estivi, mi sono infilato nella sala semivuota del cinema Nuovo Olimpia, il mio preferito, per vedere un film che mi ha emozionato al punto che ho deciso di scriverne qui.
Si tratta della storia di una famiglia di Boston alle prese con il disturbo bipolare del padre. Tutto inizia quando Cameron viene ricoverato a seguito di un episodio particolarmente acuto della malattia. Dalla meravigliosa casa in campagna in cui vive la famiglia, per ragioni economiche, la madre Maggie, rimasta di fatto solo ad accudire le due figlie, decide di trasferirsi in città (Boston).
Dopo la dimissione dall’ospedale è il momento per Cameron di riconquistare la fiducia delle tre, soprattutto dopo che Maggie, per via della condizione di semi-povertà in cui si trovano, decide di tornare a New York per finire gli studi di economia.
Inizia così una rocambolesca convivenza del padre e delle due figlie in cui si confondono i ruoli di ci accudisce e di chi è accudito, si riflette sul tema dell’età, della creatività e della fantasia: Cameron, alla sua inadeguatezza come figura paterna, affianca un’infinita capacità di stupire ed entusiasmare le bambine cucinando, cucendo loro vestiti e stimolando in mille modi la loro creatività.
Due cose del film mi hanno fatto riflettere sopra le altre: per prima la capacità che hanno gli anglofoni di riferirsi alle proprie emozioni con grande precisione (ho visto il film in lingua originale), aiutati anche dal vocabolario molto più vasto e “tecnico” rispetto a noi latini (il discorso è lungo, in inglese le parole usate per dare un nome ai propri stati d’animo sono molte di più delle nostre, e soprattutto di uso molto più comune), e per seconda la riflessione/provocazione sottintesa dal film che si interroga su quale debba effettivamente essere il ruolo dei genitori: figure ispiratrici (pronte anche a mostrare la propria unicità e vulnerabilità) piuttosto che guide infallibili (incapaci però di stimolare). Cameron, infatti, nella sua follia, costringe le bambine ad essere responsabili per se stesse, a fa da sè, senza mai essere assente. Nonostante loro si vergognino di lui davanti ai propri amici, nonostante le oggettive ed enormi difficoltà, questa unicità si rivela una ricchezza e una risorsa per la loro famiglia.