Intendiamoci

Non è questo il racconto di gesta impressionanti, ma neppure quel che si direbbe normalmente un racconto un po’ cinico; per lo meno, non vuole esserlo. E’ un segmento di una vita raccontata nel momento in cui ha percorso un determinato tratto…

Un uomo nell’arco di sei mesi della propria vita può pensare a molte cose, dalla più alta speculazione filosofica, al più basso anelito per un piatto di minestra ed un letto pulito, in totale correlazione con il suo stato di stanchezza; e se al tempo stesso ha in sé qualcosa dell’avventuriero, in questo lasso di tempo può vivere momenti che forse risulteranno interessanti ad altre persone, e il cui racconto spassionato risulterebbe qualcosa di simile a questo blog.

Così, la moneta fu lanciata in aria, volteggiò a lungo su sé stessa, cadde una volta su “testa” e qualche altra su “croce”. L’uomo, misura di tutte le cose, parla qui per bocca mia e racconta nel mio linguaggio ciò che gli occhi hanno visto; magari su si dieci “teste” possibili ho visto solo una “croce”, o viceversa, questo è probabile e non ci sono attenuanti; la mia bocca narra quello che i miei occhi le hanno raccontato.

Forse la mia vista non è mai stata panoramica, ma sempre fugace e non sempre adeguatamente informata, e i giudizi sono troppo netti? D’accordo, ma questa è l’interpretazione che una tastiera ha dato all’insieme di impulsi che avevano portato a battere sui tasti, e quegli impulsi sono ancora vivi, volteggiano nell’aria che mi circonda, nella casa di Tommaso a Cochabamba, si mescolano con il fumo della sigaretta che produce strane forme nell’alba Boliviana, e si preparano a cambiare, a modificarsi, ad evolvere.


Liberamente tratto da “Latinoamericana” di Ernesto Che Guevara (Universale Economica Feltrinelli p. 17).

Senza titolo

Allora. Sono stato dappertutto.
Dal Brazil, molto in breve: autosop su camion enormi e autobus fino a Posadas, Argentina.
Da lì a El Soberbio, poi Iguazu. Poi attraversare tutto il Paraguay su strade sterrate. Attraversare il confine con la Bolivia e prendere per Sanata Cruz. Da lì Autobus a Cochabamba. Io sto lì, calle Labadenz 606 (citofono 4b). La casa del Tommy “Mantici del Fuoco Coloniale” Vicario per la precisione.

In tutto ciò mi hanno affascinato:
– il World Rainbow Gathering in Argentina;
– le Cascate di Iguazù;
– il tucano Simon che stava nell’ostello a Santa Cruz de la Sierra;
– le scimmie e i ragni nel giardino botanico di Santa Cruz;
– tutto;

mentre non mi hanno affascinato:
– la orrenda infezione che ho vicino al gomito;
– la polizia Paraguaya;
– il tipo che mi ha estorto 100 Bolivianos mostrandomi una pistola in pieno centro.

Ya man!

Agora Maquinè

Benvenuti nella Mata Atlantica, una delle aree con maggiore biodiversità del mondo. Qui convivono oltre trecento specie vegetali endemiche, tra cui tre secie di bambu native (di cui una è il bambù gigante), molte leguminose come acacie (della stessa famiglia della mimosa), molte bromeliacee, orchidee, palme, un’infinità di alberi da frutta, araucarie,la palma Jucara e molto altro ancora. Molte di queste producono cibo spontaneamente, come il banano, tra gli altri. 30 ettari costano circa 25 mila euro.

In più, una laboriosa popolazione di discendenti africani, europei e nativi coltivano jucca, mais, canna da zucchero, girasole, tabacco, arachidi, agrumi e quasi tutte le delizie tropicali come mango, papaya, guayava, maracuja (frutto della passione) eccetera.

Qui vive in una proprietà di 5 ettari Hamiltom, soprannominato da noi “il Maestro”. Questo curioso tipo ci riceve nella sua serra, dove processa le numerose varietà di sementi a cui dedica la sua vita, e che scambia con altri agricoltori. Non accetta denaro. Il tetto della serra è ricoperto da una pianta rampicante dal cui tronco si estrae l’hayahuaska, antichissima pozione magica dei popoli nativi di questo continente. Hamiltom coltiva 5 varietà di mais, pazientemente seleziona i grani migliori, custodendo il sapere millenario dei popoli Guaranì e degli agricoltori mesoamericani. Produce sementi di tabacco e girasole multicolore, senape, ceci, fagioli, favino, zucche rampicanti di tutte le forme e colori, cetrioli, cocomeri e meloni.

Ci fermiamo qui quattro giorni, montando le tende nella casa di legno in costruzione. Le zanzare ci ucciderebbero altrimenti. In questo breve ma intenso periodo lavoriamo con Hamiltom, selezioniamo semi, raccogliamo ogni giorno gli alimenti che Lisandra cucina sulla stufa di mattoni nella serra, peschiamo nel fiume, impariamo molto, fumiamo tabacco e marijuana biologici rollati nella chala, la foglia che avvolge la pannocchia del mais. Mangiamo fagioli, riso, mandioca, uno stufato di tatù (ovvero armadillo) e beviamo caffè organico (sempre prodotto qui). A volte aggiungiamo un tocco di cacao, sempre di qui. La colazione sono banane arrostite sul fuoco, cous cous di mais e farinha (mandioca o yucca), marmellata di banane viola. Il primo giorno Hamiltom torna da un campo vicino, abbandonato, con un sacco pieno di maracuja, da cui estraiamo il succo e di cui secchiamo le migliaia di semi.

Dopo questa amena esperienza Hamiltom ci porta ad una festa gaucha (ovvero della cultura del Brasile meridionale), dove si beve e si fuma accompaganti dalla musica tipica della regione con fisarmonica, chitarra ed uno strumento simile al putipù nostrano. All’indomani della festa, che si svolge in mezzo alla mata, dove tra l’altro avvistiamo una sorta di pitone di un metro e mezzo e una tarantola gigantesca, ci incamminiamo per la stradina sterrata dove due strani ingegneri brasiliani di origine crucca ci danno un passiaggio prima nel cassone del pick-up fino al paesino vicino, e poi, dopo averci offerto addirittura il pranzo, ci portano fino alla stazione di autobus di Osorio, questa volta comodamente seduti all’interno dell’abitacolo. Lì, un provvidenziale ritardo dell’autobus diretto a Florianopolis ci permette di risparmiare diverse ore, e ieri sera per la notte giungiamo nell Isola della Magia, come la chiamano qui. Dopo aver pernottato in un hotel da quattro soldi e aver assistito al tradizionale carnevale brasiliano, stamane ci dirigiamo a Cara Kura, da odve vi scrivo, altro luogo incredibile di cui domani scattero alcune foto…

Pandamericana in not dead!!!

Bentornati a Pandamericana, un viaggio Permacatarico attraverso il continente dove tutti parlano latino.
Sono passati decine di giorni e migliaia di kilometri dall’ultima puntata, a Lima. Come potete immaginare sono successe un’infinità di cose, ma cercherò si fare un concentrato e estrapoalare l’olio essenziale delle vicessitudini avvicendatesi.
Lasciata lima, il 7 gennaio, un nuovissimo ed efficentissimo aereo della Lan, compagnia cilena, mi ha portato per la seconda volta a Buenos Aires, dove mi attendeva una nuova permavventura in Gaia. Raggiuntomi Hugo, di ritorno dalla Spagna, ci siamo catapultati nel corso di disegno in permacultura (PDC), dove, durante 13 giorni di intense lezioni (8 ore al giorno!) abbiamo appreso i fondamenti di questa arte-scienza-filosofia che è la permacultura. In Gaia abbiamo conosciuto Edoardo, un ferrarese che stava lì da quasi tre mesi come volontario. Abbiamo conosciuto anche Paula (di Buenos Aires) e Fernanda (di Brasilia). Con i suddetti, più Lucia, vecchia conoscenza del primo corso, ci siamo avventurati, poco dopo la fine del PDC, verso nord, verso l’Uruguay, il paese del mate e della vita rilassata sulle sponde dell’Atlantico.
Raggiungere l’Uruguay comporta passare per il delta del Tigre, una serie infinita di isolette verdeggianti e con una roboante biodiversità, sia in termini prettamente floro-faunistici, sia in termini umani. Questo paradiso naturale è infatti popolato da orde di vacanzieri armati di borse frigo e quintali di carne atti all’implementazione di pantagruelici asados (ovvero grigliate), consuamti tra una gita in motoscafo e una doccia di repellente per zanzare.
Dopo questa amena parentesi, lasciamo finalmente l’Argentina, e a bordo di un catamarano con aria condizionata stile cella frigo ci dirigiamo verso Carmelo, da cui si entra in Uruguay, dove un pullman con aria condizionata stile cella feezer ci aspetta per portarci a Montevideo. Non me ne volgiano gli Uruguayani, questa città non merita di ulteriori dettagli.
Ripartiamo dunque per raggiungere la famosa regione di Rocha, con le sue spiagge di sabbia bianca e i i tipici “ranchos”, ex casette di pescatori convertite in lussuose case di vacanza. La fama è effettivamente ben riposta: si tratta di una regione meravigliosa, i ranchos sono effettivamente molto pittoreschi, e i due giorni che passiamo in campeggio sono all’insegna del relax e della birra Patricia, il cui nome diventa il mantra ufficiale del gruppo. Lasciato il campeggio proseguiamo a nord, e ci fermiamo a Valizas, dove tutto è ancora più bello, più rilassante e più caro. Fernada ci ha già lasciato, diretta a Cuba via Buenos Aires, mentre io, Hugo, Lucia, Paula ed Edoardo iniziamo la ricerca di un riparo per la notte.
Un signore ci affitta per 400 pesos uruguayios una specie di deposito senza acqua nè luce, senza letti nè cucina, ma con una vista mozzafiato. Il grande portello in lamiera dà su una laguna salmastra a cui fanno da sfondo dune di sabbia a perdita d’occhio. Fantastico. Purtoppo è una accomodiation un po’ troppo spartana per Paula ed Edoardo che optano per un camping “normale”. Deve essere a questo punto che qualcosa si rompe nell’armonia del gruppo, e i due campeggiatori iniziano ad isolarsi.
Al giorno tre decidiamo di visitare Cabo Polonio, un paesino isolato che una volta era popolato da pescatori e foche, e ora è popolato da ricconi, hippies e foche. Per risparimiare, io, Hugo e Lucia decidiamo di andare in autostop. In realtà andremo a piedi, perchè nessuno si fermerà per darci un passaggio, mentre gli altri due companeros optano per l’autobus. La sera torniamo tutti insieme a piedi, attraversando in silenzio le dune di sabbia, guadando un fiume e approfittando dell’occasione per riflettere, ognuno nel suo micromondo, stimolati dalla vista sublime e dalla brezza serala che accarezza la pelle nuda e salata. Passiamo un altro giorno nel piccolo hangar, un giorno strano, un giorno di pioggia e di frattura. Si avvicina il momento dei saluti. Paula è già andata via, e all’indomani Lucia e Edoardo inizieranno il ritorno verso Buenos Aires.
Conclusa l’esperienza Uruguaya, io e Hugo, di nuovo soli, raggiungiamo Chuy, città di confine con il Brasile. In pratica è una semlice strada a dividere i due stati. Entriamo in Brasile senza neanche saperlo, e dimenticadoci il timbro di uscita della frontiera Uruguaya…
In una giornata piovosa, un altro autobus, costosissimo, ci lascia a Porto Alegre, dove, per la prima notte, alloggiamo in un ostello pieno di gente ubriaca. Una cena frugale con avocados e crackers e poi finalmente a dormire.
L’indomani raggiungiamo il Casarinho, una comunità urbana dove vive Fernanda, un’amica dell’altra Fernanda (quella di Brasilia), dove rimaniamo due giorni. E’ un momento difficile del viaggio. Sia io che Hugo non abbiamo l’ombra di un piano, e il ventaglio di possibilità tocca, tra le altre, le sueguenti destinazioni possibili: Lima, Panama City, Sydney, Sydney in barca a vela via Panama City, Bogotà, Lima in barca attraverso l’Amazzonia, Lima in autostop lungo la trans-oceanica, Rio de Janeiro.
Quando siamo sul punto di comprare un bilgietto per Christcurch, Nuova Zelanda, via Toronto, Canada, ci rendiamo conto che non abbiamo il visto, e saggiamente optiamo per venire qui, dove mi trovo ora, ad Arca Verde, una ecovilla a 40km da Porto Alegre. Il piano è schiarirsi un po’ le idee immersi nella natura, lontani dalla Matrix.
Il piano fino ad ora si rivela vincente. Arrivati a  Sao Francisco do Paula ci riceve James, con una maggiolino tutto scassato. La ecovilla è una proprietà di 25 ettari nel Rio Grande do Sul, lo stato più meridionale del Brasile. Si tratta di una zona subtropicale, a circa 900 m.s.l.m., bosco nativo di araucaria (una conifera già presente al tempo dei dinosauri) e molte altre specie vegetali. Gli alberi sono integralmente ricoperti di licheni, muschi e bromeliacee, piante che crescono in maniera simile alle orchidee sul tronco di altre piante, grazie all’umidità dell’aria.
Ci sono anche diversi laghetti, circa due ettari di acqua in totale, dove ci si può fare il bagno e si può pescare. Qui vivono due famiglie stabilmente, di cui una con un filgio di poco meno di due anni. Insieme a me e Hugo ci sono altri due volontari (Taliata,  brasiliana e Francesco, ecuadoregno poliglotta). La vita e molto rilassata e stimolante. Ci si sveglia alle 8, si fa colazione tutti insieme dopo un canto di ringraziamento all’universo, e alle nove si comincia a lavorare. Si lavora nell’orto (patate, mais, topinambur, pomodori, varie erbe aromatiche, zucche, fagioli e altro), si taglia la legna con l’ascia, si scavano canali di drenaggio per i vari sentierini, si piantano alberi da frutta, si cucina. Poi si pranza (sempre tutti insieme, e con ulteriori canti). La cucina e vegetariana, e molto buona, si mangiano patate (biologiche prodotte qui), riso, pane fatto in casa, e diverse salsette top a base di basilico, sesamo e altri alimenti strani come amaranto, quinoa e sementi varie. Il pomeriggio è dedicato allo studio e al riposo, personalmete mi dedico alla lettura dei libri di agricoltura ed ecologiache trovo qui.
Poi si cena e si chiacchera, si sogna, si sta insieme, si raccontano storie. Si va a dormire presto con abbondanti coperte per proteggersi dal freddo e dalle zanzare (e dai mille altri tipi di insetti, aracnidi, nematopodi, crostacei, cetacei, protozoi, anfibi, rettili, gnomi e anellidi).
Il sabato è dedicato al lavoro comunitario, ovvero si lavora tutti insieme ad uno dei vari progetti che sono in atto qui. Ieri per esempio siamo andati avanti con la costruzione in fango del bagno secco. La domenica e il lunedì sono giorni di riposo, dedicati alla lettura, ai bagni nel lago (quando non piove, cioè mai) e al cazzeggio.
Internet è piuttosto precario, appena  sufficiente per scrivere queste righe. Quando avrò una connessione migliore aggiungerò alcune delle foto che ho scattato in Uruguay e nei canyon qui vicino…

Grazie Lizzette.

Mentre a Roma, a Berlino e a Barcellona sono circa le 9:20 di mattina, e molti di voi stanno iniziando una nuova giornata, o lo hanno appena fatto, qui, a Lima, sono le 3:20 della mattina, e io sto per andare a dormire.

I miei due zaini sono pronti, quasi tutti i vestiti sono puliti, piegati e compressi, le batterie si stanno caricando, e salvo sulla macchina fotografica le informazioni per raggiungere Simo Desio, una signora che mi ospiterà domani notte a Buenos Aires.

Oggi è un giorno pandamericanamente importante, si chiude la fase uno di questa avventura. Da domani sarò di nuovo al punto di partenza, un’altra volta mi aspetterà Gaia, una nuova esperienza di permacultura, e di nuovo dovrò pianificare la mia risalita verso il nord, stavolta attraverso il Brasile, probabilmente. Stavolta con una cognizione di causa maggiore, con una lingua in più, con qualche souvenir nello zaino, molte foto nel disco del computer, e un anno che inizia con molti interrogativi.

Ma soprattutto, da domani, sarò senza la mia compagna di viaggio e di vita ad accompagnarmi. Le vertiginose leggi del caos vogliono che si fermi qui, nella sua città, per incontrare la prossima tappa del suo futuro, i nostri cammini giungono ad un bivio. Questo post è per immortalare questo momento emozionante, e per dire grazie a lei, senza la quale non avrei mai deciso di venire in questo continente meraviglioso.

Grazie Lizzette, a presto.
Ti amo.

Lago Titikaka e poi Perù.

Cari e affezionati amici,
due righe per aggiornarvi al volo.

Isla de la Luna

Lasciata La Paz, la capitale più alta del mondo, ci siamo diretti al lago Titikaka, il lago sacro della mitologia Inca, dove tutto si sarebbe originato, nonché il lago navigabile più alto del mondo. Il paesaggio è decisamente suggestivo. Le due grandi isole sacre, l’Isola del Sole e quella della Luna, sono interamente terrazzate, come tutte le montagne che circondano il lago, retaggio dell’antico impero che aveva reso questa zona una produttiva area agricola d’altura.

Trascorsa la prima notte a Copacabana, località turistica con ostelli ridicolmente economici (meno di due euro a notte), ci siamo traslati sull’Isola del Sole, dove abbiamo trascorso due giorni tra contemplazione e camminate sotto il sole.

Lasciamo l’Isola una domenica mattina su di un barchino ispirato a quelli che approdano a Lampedusa, solo più carico e più lento. Ad ogni onda mi domando se quel guscio di noce non imbarcherà una tonnellata di acqua gelida (e sacra) affondando e ponendo tragicamente fine all’esistenza dei pochi gringhi e dei molti locali che sono a bordo. Ad alleviare la mia sofferenza, ci si mette anche una piogerellina stronzissima che mi bagna gli unici vestiti puliti che mi sono rimasti, al che maledico il Lago, gli Inca e tutta la fottuta cosmogonia locale.

Gli sbarchi clandestini

Per fortuna arriviamo indenni al porto, e con un bus di ottimo livello raggiungiamo il vicino Perù. A Puno un tizio tenta di fregarci diversi soles (la moneta peruviana) pre-vendendoci il viaggio fino ad Arequipa, la nostra tappa intermedia prima di Lima. Mangio la foglia e mi faccio restituire il maltolto. Purtroppo però il lestofante riesce a rifilarci due biglietti su di un autobus ispirato a quelli che portano i clandestini da Lampedusa ai CPT.

Arriviamo finalmente ad Arequipa nel cuore della notte, distrutti ma felici di aver lasciato la Bolivia.
Da giorni, infatti, aspettavo impaziente il momento di usare questo blog per inveire contro questa nazione. Mi spiace dirlo, ma è il luogo più triste e disgustosamente sudicio che abbia visitato in vita mia. Inoltre la cucina è la peggiore che abbia provato, e il suo popolo assolutamente inospitale.

Anticuchos de corazon

L’indomani mattina, il Perù inizia a deliziarci con le sue mille leccornie, che fino ad ora non ci abbandonano. Le giornate iniziano con succhi di frutta deliziosi nel mercato, e seguono con le più diversificate pietanze. Ci concediamo due chicce: una cena nel ristorante di Gaston Acurio, grande chef peruviano, che ci lascia senza parole, e un Chupe de Camarones (zuppa di gamberoni) che mi fa rivalutare la classifica
gastronomica mondiale.

Chupe de camarones

Dopo due giorni passati a mangiare e comprare prodotti artigianali, finalmente prendiamo un bus che ci porta a Lima, dove ci accoglie Marta, la mamma di Liz. Da lì in poi è un susseguirsi di cibo cibo e cibo che culmina nel Cebice (un piatto di pesce e frutti di mare crudi con cipolla e peperoncino) del pranzo di Natale.

Bolivia

La Paz, Bolivia.

Ultimi 5 giorni di fuoco.

Lasciata Tilcara ci siamo diretti a La Quiaca. La Quiaca è una cittadina di confine con la Bolivia. Da tre che eravamo (io, Liz e Nicolas) siamo diventati parecchi (otto). Si sono uniti a noi 4 francesi e un’altro argentino, il Bruno. Un pazzo.

Abbiamo pernottato in un ostello, e l’indomani, di buon’ora ci siamo diretti alla frontiera. Una volta in Bolivia, abbiamo comprato gli ultimi sette biglietti del treno che da Villazon (la città di confine dalla parte boliviana), ci avrebbe portato a Uyuni. Una delle francesi ci abbandona.

Arriviamo a Uyuni. Troviamo un ostello. Siamo distrutti e decidiamo che il famosissimo Salar aspetterà un giorno ancora. Dopo una dormita ristoratrice passiamo la giornata tra lavaggi di panni sporchi di navigazione, provviste per la spedizione nel deserto e cazzeggio multikulti.

Arriva il giorno del Salar de Uyuni. Arriva il bello.
Partiamo in sei (Nico ci ha abbandonato) più Teo (autista e guida) a bordo di un fuoristrada enorme. Sfrecciamo a 100km orari nel deserto bianco, immenso.

Il Salar è un deserto di sale di 24.000 kmq originatosi da un lago salato, nato dall’innalzamento della placca tettonica che lo sorregge. Nel Salar ci sono diversi vulcani e alcune isole. Ne visitiamo una. Incredibile. Centinaia di cactus secolari e fossili marini.

La sera dormiamo in un ostello costruito con mattoni di sale. Armiamo el bailongo con una bottiglia di grappa locale e musichette. La mattina seguente (cioè ieri) ci svegliamo di buonora. Ci aspetta una vera impresa. Il Salar de Uyuini si trova a 3.650 metri di quota, e noi stiamo per scalare una delle sue cime più alte: il Volcàn Tunupa, 5.432 metri di altezza.

 

La camminata è letteralmente mozzafiato. Ci viene in aiuto l’uso locale di masticare foglie di coca, ma ai 4.900 metri decidiamo che può bastare. Una vista spettacolare del deserto oltre 1000 metri più in basso, e il cratere rosso sopra di noi ci lasciano attoniti.

Ci guadagniamo il rispetto della nostra guida stabilendo il record di discesa del Tunupa (e quello di distorsioni alla caviglia). Dopo pranzo Teo, con la poderosa Toyota, ci riporta ad Uyuni, dove nella sera di ieri prendiamo una collectivo per La Paz.

Il viaggio è tragicomico, oltre 250 km di sterrato mettono a dura prova viaggiatori e mezzo di trasporto. Riesco ad addormentarmi e mi sveglio stamattina a La Paz, dove devo cercare le scarpe che sono state trascinate dalle vibrazioni cinque file di sedili più avanti.

Arrivati a La Paz ci beviamo una spremuta di arancia fresca nel mercato comunale, servitaci da una signora alquanto locale.

Ed eccoci qui, pronti a ripartire domani per il legendario lago Titikaka, e ormai a pochi kilometri dal confine con il Peru.

Sulla mappa su cui annoto il percorso mi rendo conto che siamo risaliti dal terzultimo al secondo quadratone.

Cafayate, Puma e altre stramberìe.

Tilcara, Jujuy, Argentina.

Da quando abbiamo lasciato Tucuman abbiamo visitato dei luoghi incredibili. Primo fra tutti Cafayate (vedi mappa tra i link). Un paesuzzo iperturistico, ma molto, molto molto cariiiiiiiiiiiino. Nelle vicinanze di Cafayate si trova la Quebrada de las Conchas (che si traduce più o meno con: “la valle delle conchiglie”). Ci sono diverse perle geo-morfologiche, montagne colorate grazie alla presenza di stratificazioni di diversi ossidi (ferro, rame, zolfo e non so che altro) e piante assurde.

Oltre alle migliaia di cactus, di cui alcuni giaganteschi dal nome “Cardones”, ci sono degli arbusti spinosi che, non avendo quasi mai foglie,  compiono la fotosintesi nel tronco, che per questo è di un colore verde acceso. Nel deserto ad alta quota il sole rende questo verde un’esperienza lisergica per un permacultore.

Cafayate si difende molto bene anche per quanto riguarda i vini e la gastronomia. In particolare si coltivano vitigni cabernet-sauvignon, malbec e torrontés. L’altura riveste un’importanza fondamentale nella presenza di zucchero (e quindi di alcool) nelle uve. Per la precisione vengono mescolate uve della stessa varietà, provenienti da alture diverse per ottenere un vino di vera qualità.

A rendere il tutto ancora più incredibile, conosciamo un inglese fuori di testa. È l’incarnazione stessa del backpacker estremo, di colui che è in cerca di forti emozioni, e il più alternative possibili. Luke infatti ha lavorato volontariamente in una sorta di ospizio per felini amazzonici. La sua mansione consisteva nel portare a spasso un puma. Questo è quanto mi ha detto. Mi ha anche mostrato una puntura sulla gamba che probabilmente contiene delle larve che si schiuderanno tra alcuni giorni.  “It’s alright mate!” ha commentato.

Cafayate è indubbiamente un luogo da vedere.

Dopo Cafayate andiamo a Salta. Per quanto mi riguarda nulla da commentare.

La seguente tappa: Purmamarca, conosciuta per il Cerro de los Siette Colores (“monte dai sette colori”). Un fenomeno analogo a quello di Cafayate (la storia degli ossidi eccetera). La vera attrazione è il paesino in sè, molto pittoresco, costruito in gran parte in adobe (mattoni di argilla, paglia e arena) e con mille venditori di prodotti artigianali della zona.

Oggi arriviamo qui, a Tilcara, e nel pomeriggio visitiamo un insediamento precolombiano e un’orto botanico. Ovviamente il secondo mi risulta molto più interessante del primo.
Da quando abbiamo lasciato Cordoba la fisionomia delle persone si è fatta gradualmente sempre più vicina a quella dei peruviani e delle popolazioni indigene. L’altitudine aumenta all’avicinarsi del confine con la Bolivia. La vegetazione cambia. I cactus dominano da almeno 500km.

Vi lascio con qualche foto.